La trentaduesima edizione di “Aperitivo in Concerto”, la rassegna promossa da Mediaset e Infinity in collaborazione con Peugeot Italia e Imetec al Teatro Manzoni di Milano, è interamente dedicata alla musica improvvisata nelle sue molteplici declinazioni.
Da anni “Aperitivo in Concerto” riserva parte della sua programmazione -in genere dedicata all’intero spettro della contemporaneità- al jazz e ai linguaggi che da esso hanno tratto modelli e ispirazione. Il Novecento, così come questo tratto del XXI secolo che viviamo, ha avuto nel jazz uno strumento non solo linguistico ma persino etico e politico: la musica improvvisata di origine africano-americana ha offerto comportamenti liberatorî, ha ridato -assieme ad altri linguaggi espressivi dei Nuovi Mondi extra-europei- un nuovo ruolo al corpo e alla sua capacità di esprimersi poeticamente. E se il jazz ha mantenuto intatto fino ai giorni d’oggi il suo legame con la propria tradizione anche più lontana, così altri linguaggi, che dall’improvvisazione hanno preso le loro mosse, hanno conservato un dialogo, fitto e intenso, con le proprie radici.
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Nel corso ancora del Novecento, questa capacità e questa volontà di conservare viva la memoria grazie alla rievocazione e rilettura del proprio passato hanno contribuito a dare vita ad un ambito estetico in cui la demarcazione fra ciò che è “sofisticato” o “complesso” e ciò che è invece dichiaratamente “popolare” si è fatta via via sempre più labile se non, addirittura, inesistente. Ciò ha permesso al jazz, come ad altri fenomeni coevi, una creativa assenza d’inibizioni, sia nell’articolazione del linguaggio che nelle sue manifestazioni più esteriori: il rapporto, ad esempio, con l’intrattenimento, con uno storytelling affidato anche all’impatto di una manifesta spettacolarità o di una teatralità volutamente forte.
Rilettura e aggiornamento delle tradizioni e spettacolarità sono i temi che caratterizzano in modo netto la programmazione di “Aperitivo in Concerto” 2016-2017, dodici eventi, di cui una prima mondiale e dieci prime o uniche date italiane con la direzione artistica di Gianni Morelenbaum Gualberto – e che si manifestano sin dal concerto d’ apertura, affidato allo straordinario SF Jazz Collective (30 ottobre 2016), un ensemble composto da alcuni fra i più brillanti (e più giovani) esponenti dell’improvvisazione africano-americana, che già da alcuni anni rileggono e reinterpretano, per
autore, i capisaldi della letteratura musicale della loro tradizione:
di volta in volta, pagine scelte di Joe Henderson, Stevie Wonder, Chick Corea, McCoy Tyner, Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ornette Coleman, John Coltrane, Thelonious Monk, Michael Jackson. La loro attenzione si è rivolta, in quest’occasione (in prima italiana), ad un artista che ha composto pochi lavori ma che con la sua personalità ha forgiato l’estetica africano-americana dai tardi anni Quaranta fino a tutti gli anni Ottanta, esercitando un’incancellabile influenza anche sul nutrito e fondamentale corpus compositivo di alcuni suoi eccezionali collaboratori: Miles Davis.
Altrettanto impressionante e virtuosistica è la formazione (20 novembre 2016) nella quale l’introspettivo future-jazz del celebre trombettista norvegese Nils Petter Molvæer si distende, con la sua ricchezza timbrica e le sue sonorità elettroniche memori degli esperimenti di Miles Davis, sul tappeto ritmico creato da una fra le più famose sezioni degli ultimi quarant’anni, quella formata dai giamaicani Robbie Shakespeare al basso e Sly Dunbar alla batteria (artisti che si dice siano presenti ormai in più di 200.000 incisioni: da Bob Dylan a Grace Jones, da Herbie Hancock a Madonna o Marianne Faithfull, da Peter Tosh a Mick Jagger). Esibizione concertistica ideata e pensata come un vero e proprio spettacolo teatrale dai gesti ieratici, Sly and Robbie meet Nils Petter Molvær vanta la presenza sul palcoscenico di due artisti che delle sofisticate alchimie fra complesse combinazioni di suoni hanno fatto un credo estetico: il raffinato chitarrista Eivind Aarset e il mago dell’elettronica Vladislav Delay.
Con il concerto dell’Alexander Hawkins Ensemble (27 novembre 2016) l’approccio all’improvvisazione si fa particolarmente sofisticato, lasciando ampio spazio alle diverse influenze che si assommano nello stile di questo pianista inglese, capace di oscillare fra un ortodosso stride-piano e la libera improvvisazione di un Cecil Taylor, così come di immergersi nelle melodie incantatorie ereditate dalla sua prolungata collaborazione con il batterista sudafricano Louis Moholo-Moholo. Hawkins si presenta a capo di un sestetto in cui spicca la presenza di uno fra i protagonisti della scena improvvisativa britannica, il sassofonista Jason Yarde, anch’egli collaboratore di Louis Moholo-Moholo così come di artisti quali Sam Rivers, Andrew Hill, Jack DeJohnette.
Non è certo un improvvisatore, il geniale compositore e pianista Frederic Rzewski (4 dicembre 2016), uno fra i più significativi e arditi esploratori che la musica accademica americana abbia potuto vantare nella seconda metà del Novecento; pure, all’improvvisazione, che Rzewski ha studiato e frequentato sotto più profili [basti ricordare la sua partecipazione a uno storico gruppo come M. E. V. (Musica Elettronica Viva), in cui egli interagiva con autori e improvvisatori come Alvin Curran, Steve Lacy, Richard Teitelbaum, George Lewis o Garrett List], il suo lavoro deve non poco, sia come gesto musicale che come impostazione culturale nell’assimilazione di una molteplicità di materiali popolari americani (basti pensare a una composizione come North American Ballads). A Milano, dove Rzewski torna dopo lunghissima assenza, egli presenta uno dei suoi indiscussi capolavori, le fenomenali 36 Variations on ‘The People United Will Never Be Defeated!’’ estesa rielaborazione (in cui l’improvvisazione è spesso presente) di una celebre composizione popolare di Sérgio Ortega e del gruppo cileno Quilapayún: El Pueblo Unido Jamás Será Vencido!, vero e proprio inno della resistenza contro la dittatura militare cilena. Per quanto su di un’impostazione eminentemente tonale, Rzewski trasforma la composizione originaria facendo uso di una molteplicità di tecniche e d’influenze, dalla tonalità pandiatonica al serialismo e alla libera improvvisazione.
Ancora libera improvvisazione e l’esplorazione di una molteplicità di linguaggi e tradizioni caratterizzano l’incontro fra un musicista e autore acclamato come il pianista Vijay Iyer e un guru della musica improvvisata contemporanea africano-americana come il trombettista Wadada Leo Smith (15 gennaio 2017): uso lirico del silenzio e dello spazio, vasta ricchezza timbrica, un interagire intenso che sa immergersi nell’astrazione senza perdere un’affascinante intelligibilità, il duo fra Iyer e Smith si arricchisce, in occasione dell’esibizione al Teatro Manzoni, della collaborazione dei componenti abituali del trio del pianista, il contrabbassista Stephan Crump e il batterista Marcus Gilmore, ricreando una speciale versione dello storico Golden Quartet del trombettista, in cui Iyer milita e ha militato lungamente.
Una prima mondiale viene presentata (22 gennaio 2017) da uno splendido gruppo di improvvisatori guidati da Joe Daley, eccezionale solista di tuba che si ricorda nei gruppi di Sam Rivers, Gil Evans, Carla Bley o in un complesso come Hazmat Modine. In Prayer Rituals, una serie di composizioni basate sulla drammaticità del blues e degli inni religiosi africano-americani, Daley si avvale, con un’affascinante abilità nel creare una vasta tavolozza di colori, di alcuni artisti di indiscutibile rilievo: due multistrumentisti come il flautista Bill Cole e il sassofonista Scott Robinson e un percussionista e batterista del valore di Warren Smith, musicista di grande versatilità, di rado presente sulle scene italiane e di cui vanno menzionate almeno le collaborazioni con Gil Evans, Anthony Braxton, Billy Harper, Jaki Byard, Max Roach e M’Boom, Sam Rivers, Charles Mingus, Julius Hemphill.
Una produzione ideata da “Aperitivo in Concerto” ricorda invece la figura di John Coltrane nel cinquantesimo anniversario della morte: Roscoe Mitchell (29 gennaio 2017), sassofonista, compositore e grande innovatore che molti ricordano come protagonista del leggendario Art Ensemble of Chicago, esplorerà l’eredità del complesso universo estetico coltraniano, rileggendo alcune fra le principali composizioni del sassofonista di Hamlet con una formazione estremamente originale, quasi interamente affidata (con l’eccezione del batterista Vincent Davis) a una sezione di archi di cui fanno parte strumentiste del pari della violoncellista Tomeka Reid e della violinista Mazz Swift.