I Tre Moschettieri – Opera Pop: recensione e curtain call
Silvia Arosio
Un susseguirsi di soldout per la settimana dal 15 al 23 febbraio, “I Tre Moschettieri – Opera Pop”, per la nuova versione musicale italiana del più famoso romanzo di Alexandre Dumas, prodotta da Stefano Francioni e dal Teatro Stabile d’Abruzzo (di cui è direttore artistico Giorgio Pasotti): il pubblico di Milano ha atteso con trepidazione lo spettacolo al teatro Nazionale e ha tributato grandi applausi al cast.
Uno spettacolo che vede il debutto – almeno in teatro – di un Giò di Tonno compositore: un’idea che, in tempi non sospetti (quando era in scena il maestoso I Promessi Sposi), grazie all’imbeccata del Maestro d’Armi Renzo Musumeci Greco, si insinuò nei progetti dell’allora Don Rodrigo per essere poi messo su carta. E in note.
Perché se DI Tonno ha curato la parte musicale, il testo è stato scritto da Alessandro di Zio, grande amico di Giò.
Ed è sicuramente il tema dell’amicizia il collante dello spettacolo, in scena e al di fuori, per un’Opera Pop che ha il grande pregio di vedere in scena sul palco nomi più che affermati del Teatro Musicale italiano, insieme a giovani leve su cui dovremmo puntare gli occhi, scelti appositamente dall’autore, perché si sa, il motto è “Tutto per uno ed uno per tutti”.
Amicizia virile, appunto, oltre a brama di potere, rivalità femminile, e amore, che abbraccia uno spazio ancora più alto, di quello tratteggiato nel romanzo: tanti i temi portanti, così pure come le speranze giovanili e la “protezione” paterna degli adulti, rendono il plot narrativo adatto ad ognuno di noi.
Uno spettacolo nello spettacolo, che si apre su una fabbrica di scatole e che potrebbe essere anche un magazzino di e-commerce, dove compare, messo apposta o dimenticato, l’antico testo di Dumas (pensate, fu scritto nel 1844), da cui prendono vita i personaggi: siamo in una Parigi del 1600, sotto il regno di Luigi XIII, luogo dove gli intrighi sono come le brioche…
Una città che non è preponderante e tentacolare, nonostante il suo dedalo di vicoli, come in Notre Dame (se a quello state pensando), ma che fa comunque da sfondo a vicende perfettamente intelleggibili, grazie ai testi e alla regia di Giuliano Peparini, e che trova apoteosi e giusto riconoscimento nel brano portante dello spettacolo.
2 ore e 45 di spettacolo, 43 brani uniti da “link”, tratteggiati dallo stesso autore in scena, interpetrato da Roberto Rossetti, che è mente pensante e spettatore insieme della trama, la quale prende vita propria nel dipanarsi delle pagine, e dove l’autore non può che stare a guardare e empatizzare con i suoi personaggi. Come il pubblico, d’altronde.
Quadri incastonati da una scenografia tridimensionale di ponteggi, su cui drappi setosi prendono corpo, insieme a sintetiche ma efficaci videoproiezioni. Forse, soprattutto nel primo atto, andrebbero eliminati diversi bui, che privano un po’ di fluidità il racconto e le luci, ahimè, a volte sbagliate.
In tutto ciò il cast si muove come due falde di terra contrapposte, quella dei pezzi da novanta (Di Tonno, Matteucci, Galatone, ma anche Di Minno, Mini e Rossetti) e quelle delle “nuove proposte”, che insieme si amalgamano, dando vita a punte di grande intensità ed altre un po’ meno convincenti.
Sottolineerei la capacità di tenuta di palco di Sea John – D’Artagnan e di Camilla Rinaldi – Milady, che, insieme alla vocalità e alla dolcezza di Beatrice Blaskovic – Costanza, sono delle vere rivelazioni.
Permettetemi una nota a parte per Gabriele Beddoni, che in scena non è solo Planchet, ma diventa un jolly, interpretando varie parti e “saltando” (oltre a recitare bene ed ad avere una bella voce è un ottimo acrobata) nelle vesti di uno o un altro ruolo.
La “bellezza” di rivere in scena la triade dei Moschettieri (d’altronde il romanzo di Dumas si chiama così ma parla di un quarto guascone) è amplificata dalla presenza di Cristian Mini, davvero al suo massimo splendore vocale ed interpretativo sulla scena, con un Richelieu perfettamente costruito, e di Leonardo di Minno, un Rochefort al limite della follia (ma cosa lo è e cosa è normalità?), che fanno da specchio e cassa da risonanza ai tre protagonisti.
I “magnifici tre”. La loro presenza scenica, già in controluce, riempie il palco, il cappello da cadetto enfatizza gli sguardi come in un primo piano di Sergio Leone, in un quadro dove, al posto della pistola, regna la spada.
Spade magistralmente preparate con Renzo Musumeci Greco.
L’interpretazione, ben studiata e calibrata, è costruita a pennello sulle tre personalità: addirittura Matteucci trasmuta la voce per rendere al meglio quel fanfarone di Porthos, mentre piccoli segni, disseminati qui e là, come la saggezza di Athos – Di Tonno ed il segno della croce di Aramis – Galatone, diventano una chiara rappresentazione delle varie indoli e, perché no, anche del futuro dei personaggi fuori scena. Quello che è, è quello che sarà.
Ricordiamo che i personaggi evolvono e non solo nella trilogia di Dumas: ed anche in chiesto caso l’evoluzione ed il gioco delle parti sono in divenire, fino a scompigliare le carte in tavola e confondere le idee al pubblico su cosa sia buono o cosa cattivo.
D’altronde, sono le luci ed ombre dell’essere umano.
Il corpo di ballo, coreografato con pezzi moderni e a volte post-moderni, da Veronica Peparini e Andreas Müller, si muove compatto in costumi, spesso imponenti, che si alternano tra il filologicamente ineccepibile ad altri che danno la sensazione di essere “Raccattati qui a là”, e volutamente: ricordiamo che, al di là del velo (di Maya o la quarta parete?) la storia è una trasposizione onirica, che nasce in una fabbrica di imballaggi e non ci dobbiamo stupire se alcune gonne sono in pluriball.
Infine, le canzoni rappresentano, come deve essere, il coprotagonista dello show e sono assolutamente moderne, pop e tutte più o meno orecchiabili.
La drammaticità del secondo atto riporta a paragoni con altre epiche storie già viste in spettacoli simili, e la voce graffiata di Di Tonno ci regala attimi di puro godimento: sta agli esperti del settore, e ai numerosi fans, emozionarsi e scoprire parallelismi… d’altronde la tragedia mozza il fiato in ogni sua forma.
E se il finale ci lascia un po’ di tristezza sulle ciglia, tant’è… Ripercorreremo a ritroso la vicenda la storia raccontata per scoprire indizi, e, perché no, magari riprenderemo in mano il romanzo, come già abbiamo fatto (vero?) per opere simili.
Uno spettacolo in boccio, ancora da rivedere in alcune parti, ma con una potenzialità altissima: un nuovo tassello per lo show dal vivo, nuovo ed italiano.
Lunga vita ai Tre Moschettieri Opera Pop!
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Sotto, il video del curtain call:
Official Website “I Tre Moschettieri – Opera Pop”:
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