UOMINI E TOPI

di John Steinbeck

REGIA MARCO VACCARI

“Forse in questo dannato mondo ognuno ha paura dell’altro.”

I sogni son desideri, e, anche se, ahimè, a volte non si realizzano, ci aiutano ad andare avanti. Almeno ci provano. Un po’ come la carota che si metteva un tempo davanti al muso dei muli, per farli camminare.

E se il sogno americano si infrange tragicamente contro il muro del destino, forse la vita vissuta con speranza e, perché no, con un amico a fianco, vale la pena di essere vissuta. Fino alla fine.

No, non è una favola Uomini e Topi di John Steinbeck, anche se, provocatoriamente, ho voluto iniziare con una citazione a tema: non lo è mai stata, fin da quando il romanzo è uscito nel 1937, così come la sua scrittura teatrale, o il film del 1939 e del 1992.

Non c’è redenzione, nel testo, almeno con c’è per gli ultimi, per i disgraziati, buoni e volenterosi, ma fondamentalmente schiacciati dal mondo.

D’altronde, la storia del libro è stata messa su carta nel periodo del dopoguerra, quello della grande depressione, e, pur essendo specchio di quei tempi, è tanto spaventosamente attuale da fare tremare i polsi. Ieri come oggi.

La ripresa teatrale, voluta e magistralmente diretta – già l’anno scorso e ripresa in questa stagione, ma rara nelle sue rappresentazioni – da Marco Vaccari è una carezza ed un pugno nello stesso tempo: ti resta appiccicata addosso anche quando esci dal teatro, da dove, più di uno spettatore si è allontanato con le spalle chine e gli occhi lucidi, consapevole di avere assistito a qualcosa di molto, molto, bello.

E non solo perché il testo, ripreso fedelmente dal romanzo, a parte qualche attualizzazione per avvicinare i giovani (comunque in larga parte presenti in sala, cosa rara!) è una stilettata, realistica, asciutta e palese, tutta già scritta lì, nero su bianco, ma anche perché la messa in scena è di altissimo livello. E non scandalizzatevi, quindi, delle “parolacce”, se usate con il fine giusto, quello di solleticare lo sguardo e l’orecchio dei giovani.

Tutto è funzionale.

A cominciare dalla scena di apertura, che fonde cinematografia e teatro, con un unico piano sequenza color seppia, in cui, da lontano, da molto lontano, si avvicinano due figure, l’una alta e scoordinata nei movimenti, l’altra più piccola e sottile, che lentamente, molto lentamente sembrano avvicinarsi a noi, da un periodo di 90 anni fa, per poi irrompere in carne ed ossa sul palco, attraverso una fenditura dello schermo. Per raccontarci una storia, la loro.

Un’apertura geniale, come altrettanto interessante è la trovata scenica del molo ligneo che diventa letto a castello – simbolo dell’amicizia tra i due protagonisti – , che a sua volta si plasma in fienile: il tutto avvalorato da un gioco di luci sapientemente puntato, per evidenziare i passaggi di scena, il giorno e la notte e i momenti lirici o drammatici della pièce (scenografia studiata con lo stesso Vaccari e realizzata da Francesco Fassone, nome storico degli spettacoli al San Babila; luci di Davide Andreozzi).

I piccoli oggetti scenici, come il secchio che Vaccari ha ereditato da suo nonno contadino, sono quei camei che rendono più viva la scenografia.

Terzo punto di forza, il cambio a scena a vista: gli arredi si trasformano a scena aperta – senza stacchi o cali di energia- per mano dei personaggi, che non escono mai dal ruolo, ma anzi sottolineano il “lavoro” con un work song (o field holler, per restare in tema rupestre) in italiano, cadenzato e ossessivo, appositamente scritto da Vaccari stesso.

– Ho veduto centinaia di tipi arrivare per la strada e per i ranches, coi fardelli sulla schiena e la stessa idea piantata in testa. Centinaia. Arrivano, si licenziano e se ne vanno, e tutti fino all’ultimo hanno il pezzetto di terra nella testaccia, e mai uno di loro che ci arrivi. È come il paradiso. Tutti quanti vogliono il pezzetto di terra. […] Nessuno trova il paradiso e nessuno trova il pezzetto di terra. È solamente nella testa. Non fanno altro che parlarne, ma ce l’hanno solamente nella testa.

Gli attori sono stati poi diretti molto bene: oltre alla mano registica, la qualità di base degli artisti in scena è davvero alta.

In primis, il Lennie Small di Jacopo Sartori è da manuale: un “grandone”, come viene definito in scena, con un animo da bambino, forse facente parte di uno spettro autistico, ma non specificato nel testo, non consapevole della propria forza (no, non vi spoilero la trama, tanto avrete letto tutti il romanzo… o no?): se la parola incespicata e ripetuta ossessivamente dà fiato ai suoi pensieri leggeri ed ingenui (anche quando platealmente chiede: “Ho fatto una brutta cosa?”), lo stropicciamento rituale della sua salopette o le dita che si contorcono rendono alla perfezione la parte visiva del carattere infantile di Lennie.

Ed è nel suo rapporto con George, altro bravissimo attore, Leonardo Moroni, che troviamo “la carezza”, il rapporto di amicizia virile tra i due protagonisti, tanto dolce e tenera, da fare dimenticare i rapporti di bullismi della prima infanzia.

VIDEO DEGLI APPLAUSI FINALI

Le carezze che Lennie ama fare, passando la sua manona su tutto ciò che è morbido, valluti, cagnolini, topolini, capelli delle donne.

“Quelli come noi non hanno una famiglia,” disse George.
“Mettono insieme un gruzzoletto e poi lo sperperano. Non hanno nessuno al mondo a cui importi un fico secco di loro… »
“Ma noi no,” esclamò Lennie gioioso. “Di’ di noi.”
Per un momento George rimase in silenzio. “Ma noi no,” disse.
“Perché…»
“Perché io ho te e…”
“E io ho te. Noi ci abbiamo l’un l’altro, ecco a chi importa un fico secco di noi,” gridò Lennie trionfante.

Ed il pubblico empatizza con i due e sogna con loro i conigli rossi e blu e gialli e il pezzetto di terra da lavorare per 6 ore, e non 12, lo stesso sogno che sarà l’incantesimo che dona levità al tragico finale: perché la tensione ed il “pugno” sono presenti in tutte le quasi due ore di spettacolo, sempre, non mollano la presa.

Come lo spettatore che dalla riva vede la nave che va ad infrangersi contro le rocce, anche noi dalla platea sappiamo e prevediamo che, nonostante l’amicizia ed i sogni, lì finiremo tutti (prima persona plurale), lì si infrangeranno i sogni condivisi, perché il mondo al di fuori, interpretato da altri straordinari attori, è crudele.

Homo homini lupus, per dirla alla Plauto.

E poco importa se anche i compagni di lavoro al ranch Candy (Gianni Lamanna) o il “Negro” Crooks (Rodrigue Skepe) si uniscono ai sogni dei protagonisti (per simpatia o interesse?). L’autorevole capo-milattieri Slim (Marcello Mocchi), ed il figlio del capo Curley (Lorenzo Alfieri) sono la legge, sono chi comanda e l’avranno sempre vinta.

Persino l’unica donna del ranch, la moglie del capo, interpretata da Giulia Marchesi, da potenziale vincente sulla carta, finisce ad essere vittima di un sistema patricentrico e patriarcale, che non lascia spazio ai sogni, siano il pezzo di terra, siano il debutto nel cinema.

Un uomo ha bisogno… di qualcuno vicino,” gemette. “Un uomo diventa pazzo se non ha nessuno. Non importa chi è, da quanto è con lui. Te lo dico io,” esclamò, “te lo dico io che a rimanere troppo soli si finisce con l’impazzire.”

No, non c’è riscatto.

Ma forse la carezza nel pugno sono davvero la voglia di sognare, e quell’amicizia che avvicina le persone perché si sa, senza l’altro a fianco, si rischia di impazzire.

Lo spettacolo, ahimè, per quest’anno è finito, ma sono certa che verrà ripreso nella prossima stagione.

Fate un nodo al fazzoletto.

VISTO AL TEATRO SAN BABILA DI MILANO IL 6 APRILE, ORE 16.00.

INTERVISTA A MARCO VACCARI