Non c’è operatore dello spettacolo dal vivo oggi, dopo un anno di fermo delle attività, del proprio lavoro e della propria vita, che non desideri con tutte le sue forze la riapertura dei teatri.
“Aprite i teatri” è stato lo slogan che, in questi mesi, ha sintetizzato una complessità di pensieri e visioni, un modo tra i tanti per dire ancora:
“Riconoscete il ruolo essenziale della cultura nella ricostruzione di un Paese che era già alla deriva prima del Covid.
Riconoscete che il comparto dello spettacolo dal vivo è parte integrante dell’economia nazionale.
Riconoscete che i lavoratori di questo comparto hanno bisogno non solo di lavorare, ma di farlo in sicurezza, vedendo assicurati i diritti e le condizioni elementari del lavoro, tramite una riforma del welfare capace di contemplare le infinite sfumature di questo mestiere tanto affascinante quanto atipico.
Riconoscete che il costo delle produzioni, delle programmazioni, delle tournée oggi è almeno triplicato.
Riconoscete che il panorama teatrale è più ampio delle realtà sostenute dal FUS e che c’è un confine facilmente individuabile tra professionalità e passione amatoriale.
Riconoscete che ci sono centinaia di presidi culturali permanenti nei territori che, rischiando di morire sotto il peso di questo fermo obbligato, faranno implodere il Sistema così come lo conosciamo, comportando il rischio di una desertificazione culturale del nostro Paese, ai primi posti nel mondo per patrimonio materiale e immateriale.
Quando avrete riconosciuto tutto questo e messo in campo delle soluzioni credibili, anche grazie al confronto con le Sigle vecchie e nuove, che non si tireranno indietro se interrogate, sarete certamente in grado di riaprire i teatri.”
Ci domandiamo, così come abbiamo domandato alle Istituzioni in sede di molteplici confronti aperti e collaborativi, come possa diventare sostenibile una riapertura a colori con variabili tanto incerte. Quali spazi potranno sostenere una riapertura con una capienza del 25%? E che tipo di spettacoli saranno in grado di ospitare? E ancora, quali spazi potranno sostenere nuovi costi di adeguamento e una programmazione reale sapendo che essa rischierà di saltare al cambio di colore della regione? E, d’altro canto, quali compagnie potranno permettersi di firmare un contratto di replica e assumersi relativi costi di tamponi, prenotazione di viaggi in sicurezza, prenotazione di alloggi moltiplicati per distanziamento, per delle repliche che potrebbero rischiare fino all’ultimo di saltare per cause di forza maggiore?
Saranno probabilmente solo i teatri più strutturati e quelli che più in questo anno sono stati garantiti e assicurati dalle necessarie misure messe in campo dallo Stato. E ancora saranno le compagnie più consolidate, che potranno permettersi cachet più bassi (in linea con la riduzione del pubblico) che conoscono già l’importo del finanziamento ministeriale loro erogato per il 2021 e che quindi permetterà loro di investire (in decisa perdita) per la copertura delle giornate recitative richieste dal ministero.
Una netta minoranza, in entrambi i casi.
Cosa ne è in questo disegno di tutti gli spazi la cui capienza ridotta risulta irrisoria e di tutte le compagnie che non potranno immaginare una circuitazione sostenibile nel momento in cui, avendo il Ministero della Cultura decretato la riapertura, non saranno più previste per il settore forme di ristoro?
A chi giova questa “corsa a chi ce la fa”, proprio in questo momento in cui una pandemia ci sta ricordando con ferocia che le azioni di ognuno ricadono inevitabilmente su tutti?
C.Re.S.Co, pur avendo lavorato come tutti per una ripartenza del settore, in questo momento crede che sia opportuno porsi ancora qualche domanda, prima di festeggiare un appuntamento che non sarà per tutti.